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À LA RENCONTRE DE JIŘÍ KOLÁŘ

Era il 1968 quando vidi per la prima volta le opere di Jiří Kolář, presentate in una mostra collettiva alla Galleria Nazionale di Praga. La vita sociale e culturale della Cecoslovacchia viveva allora un breve periodo di liberalizzazione. Il suo lavoro si distingueva dalla folla di pittori e scultori per lo più astratti. Sono stato immediatamente colpito dall’espressività, dalla pertinenza e dalla novità con cui Jiří Kolář affrontava il mondo che lo sfidava.

A quei tempi Kolář aveva già in stampa alcuni libri, in particolare Poèmes du silence, in cui documentava la sua transizione dalla poesia verbale a quella visiva. Questo processo ha richiesto circa dieci anni di lavoro, a partire dalla metà degli anni Cinquanta.

Purtroppo la Primavera di Praga durò poco e i suoi libri, appena stampati, furono distrutti. A Kolář fu vietato di pubblicare ed esporre, e io partii via Istanbul per Parigi per studiare alla École des Beaux-Arts.

Dalla fine degli anni Sessanta non ho più avuto notizie di Jiří Kolář, a parte del suo notevole coinvolgimento nella dissidenza che portò al movimento intellettuale e sociale di Charta 77, per la quale Kolář si impegnò attivamente.

Questo silenzio fu interrotto nel 1981, quando Jiří Kolář arrivò a Parigi dopo un soggiorno a Berlino. Il Centre Pompidou gli affittò uno studio proprio lì di fronte per alcuni mesi, è lì che l’ho incontrato un giorno di primavera dello stesso anno. L’accoglienza fu molto cordiale. Gli portai alcuni miei lavori, perché Jiří Kolář voleva conoscere i suoi visitatori attraverso le loro opere. Qualche mese dopo fui invitato all’inaugurazione della sua mostra alla Galerie Maeght. Fu in quell’occasione che Jiří Kolář decise di non tornare nel suo Paese, dove avrebbe dovuto affrontare le persecuzioni della polizia. La sua galleria gli propose un contratto che, per la prima volta nella sua vita all’età di 68 anni, gli permise di vivere di arte!

Fu allora che Jiří Kolář mi chiese se potessi aiutarlo ad avviare e sviluppare la sua attività a Parigi, anche perché lui non parlava francese. La nostra collaborazione è iniziata il 2 gennaio 1982.

Arrivavo nel suo studio alle 15 e ricevevamo i visitatori che avevano preso appuntamento telefonicamente. Jiří Kolář aveva collezionisti in diversi Paesi, in particolare tedeschi, italiani e americani, che gli sono rimasti fedeli e che erano felici di poterlo incontrare più facilmente essendo fuori dalla Cecoslovacchia.

Anche scrittori e artisti francesi erano entusiasti di conoscerlo. Kolář accoglieva con piacere un gran numero di visitatori.

Pierre Alechinsky, che stimava particolarmente Kolář, gli propose di creare opere a quattro mani. La sua stima non si è affievolita con il passare del tempo. Durante una delle recenti inaugurazioni di Kolář, Pierre mi ha detto: “Era da molto tempo che non vedevo una mostra che non fosse volgare!”.

Mi sono occupato di reperire i materiali di cui Kolář aveva bisogno. Ci rivolgevamo regolarmente a una tipografia del 20° arrondissement di Parigi per stampare riproduzioni di quadri classici. Questo gli dava l’opportunità di ottenere le misure desiderate per i suoi collage. La stessa azienda stampò Revue K, un periodico trimestrale che Jiří Kolář fondò per “catalogare” gli artisti cechi, espatriati come lui. Da allora, Revue K (www.revue-k.net) continua a esistere anche a 22 anni dalla morte di Kolář, non più come periodico, ma come casa editrice d’arte che pubblica monografie, album di fotografie, stampe, portfolio e libri di poesia accompagnati da opere di artisti di tutto il mondo. Kolář mi ha dato la possibilità di entrare nel mondo dell’editoria; senza di lui non avrei mai pensato di diventare editore.

Durante quegli anni, Jiří Kolář ha esposto in numerose mostre in Europa, Canada e Stati Uniti. Abbiamo viaggiato insieme e approfittato di questi spostamenti per visitare mostre e musei. Ogni volta Kolář si fermava nei bookshop per acquistare un gran numero di cartoline, che rielaborava al suo ritorno a Parigi. In questo modo, come diceva con grande umorismo, costruiva il suo museo personale.

Nel 1995 mi è stata data l’opportunità di progettare la sua retrospettiva al Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, e sono stato anche responsabile dell’allestimento. Era necessario racchiudere l’intera vita di un artista estremamente prolifico in poche sale che il visitatore medio avrebbe attraversato in un’ora o un’ora e mezza. Il bellissimo catalogo che accompagnava la mostra è andato esaurito rapidamente. Il direttore del museo, José Guirao, mi ha dato fiducia e l’anno successivo ho potuto esporre i dipinti dei miei studenti tibetani, con i quali lavoro regolarmente nel Nord dell’India.

Quando nel settembre 1998 tornai da uno dei miei viaggi in India, a Parigi mi aspettavano brutte notizie. Jiří Kolář aveva avuto un attacco cerebrale ed era diventato emiplegico. Lo ritrovai in ospedale. Sua moglie decise di trasferire il suo studio a Praga e di vendere l’appartamento. Nel febbraio 1999 si concluse la sua avventura parigina. Sono andato a trovarlo diverse volte a Praga; è stato commovente vedere un artista che era stato così attivo per tutta la vita costretto a letto. Non poteva più fare i suoi collage, ma aveva ricominciato a scrivere. Il suo libro Notes, pubblicato poco prima della sua morte, è un’opera magistrale sulla fine di una vita in cui Jiří Kolář descrive le “diverse fasi di un corpo che ti abbandona”. Decise di reagire alla sua nuova condizione attraverso la prosa e la poesia, come ai tempi della sua gioventù.

Roman Kames
Parigi, febbraio 2024

Nel 2002, quando Jiří Kolář è mancato lo conoscevo da quindici anni, era un amico col quale ho sempre parlato solo per mezzo del caro Roman Kames, che ci faceva da interprete, per questo suo “vezzo” di non parlare francese, nonostante vivesse in Francia da un ventennio. Le visite al suo studio di Parigi erano tutte le volte una forte emozione: ci accoglieva con semplicità, lui, già anziano ci prendeva le sedie per farci accomodare e ci serviva da bere vino rosso e whisky d’annata, poi si guardavano le opere, le ultime pubblicazioni e si chiacchierava di arte o altro. Si usciva dalla porta e già si desiderava tornare.

Lo ricordo come un genio col sorriso, le sue opere sono sempre positive, sempre ironiche, come lo era lui. Durante gli ultimi mesi che abitava a Parigi Jiří Kolář trascorse un periodo in ospedale, andai a trovarlo con mio padre e ci accolse con un sorriso che non dimenticherò mai e così a Praga; quando ci vedeva capivi che c’erano affetto e fiducia. Tanta fiducia al punto da delegare alla mia galleria l’archiviazione delle sue opere: aveva capito l’amore che avevamo per il suo lavoro.

Sabina MelesiGalleria Melesi, Lecco

Il mio primo incontro con i collages di Jiří Kolář risale ormai a vent’anni fa.
Era un grigio pomeriggio dell’autunno 2005 quando, passeggiando in Via Mascari a Lecco, vidi attraverso una vetrina l’iconico manto blu della “Vergine annunciata” di Antonello da Messina scomposto in maniera caleidoscopica. Quell’accenno di sorriso cartaceo, che fa di lei la Madonna più bella della storia dell’arte, era un esplicito invito a vincere la mia esitazione. Varcai così per la prima volta la soglia della Galleria Melesi, che ospitava la mostra Velo d’amore, dedicata ai collages di soggetto sacro che Kolář produsse nel corso della sua prolifica carriera.
Alla disperata ricerca di un argomento a cui dedicare la mia tesi triennale in Scienze dei Beni Culturali trovai i rollages e chiasmages ad attendermi.
Il mio periodo di ricerca presso l’Archivio Kolář mi ha permesso soprattutto di comprendere appieno il senso dell’immenso lavoro del maestro boemo: omaggio creativo e appassionato ai capolavori della storia dell’arte, risorti attraverso nuove trame e ritmi contemporanei, vibranti e centifughi.
L’attività da alchimista artigiano della carta di Kolář mi ricorda il religioso silenzio con cui mio nonno, infermiere di professione e falegname per hobby, si chiudeva nel suo laboratorio a levigare e intarsiare i frammenti di legno reperiti qua e là.
Il rimpianto più grande resta quello di non essere riuscita a conoscerlo: avrei voluto osservare le sue mani industriose e apprendere da lui il valore del silenzio come forza interiore.
Ho avuto però la possibilità di viaggiare e perdermi nel suo universo straripante, immaginandolo nel suo studio ad intagliare chirurgicamente striscioline e silhouettes, ricucite con la colla in nuovi meandri regolari o generando mirabolesche prospettive roteanti. Kolář ha messo ordine nella Babele linguistica del contemporaneo: i 108 diversi metodi per realizzare il collage lo hanno consacrato ufficialmente come genere artistico autonomo.

Isabella Maggioni
Lecco, marzo 2024

IN MEMORIA

Una colonna si spezza, una diga si rompe. L’undici agosto nello stesso giorno in cui le acque della Moldava sommergevano la città, a Praga moriva Jiří Kolář. Vorrei dire alcune parole per ricordarlo.

Da lui, ho continuato ad apprendere quanto avevo imparato da Giorgio Morandi; cosa sia il silenzio. Che cosa il silenzio sia in grado di trasmettere all’interno di un’opera. Il silenzio come forza sovversiva in quanto spazio meditativo. E così come Morandi, come Josef Sudek, Jiří Kolář ha vissuto dentro il suo silenzio per un’intera esistenza. In Jiří Kolář il silenzio era espressione di una forza interiore tale da arrivare a una efficacia comunicativa imparagonabile. Nel suo silenzio era scritta la consapevolezza del fare arte come pratica etica ancor prima che estetica. Dare ogni giorno con dignità della propria esistenza un contributo alla costruzione di un alfabeto morale.

Kolář, in ceco, si pronuncia “kolàge”, come collage e il collage è stato il genere nel quale si è identificata la sua arte. Come un alchimista e con una maestria mai vista prima, sapeva rendere fantastiche le cose più umili dello sguardo quotidiano. L’ho sempre incontrato in studi di piccole dimensioni; muri bianchi, le finestre sbarrate, la luce accesa. Vestiva sempre un camice bianco come se ogni nuova opera fosse un’operazione chirurgica dentro un’immagine o dentro una parola. Attraverso le sue forbici l’alfabeto ha trovato il suo delirio e il suo paradiso.

È difficile dire cosa abbiano significato, verso la fine degli anni sessanta, per un giovane di venticinque anni, assuefatto al clima italiano di supponenza, di maldicenza, di discredito sistematico tra artisti, al chiasso e alla violenza come principale mezzo per imporsi, trovarsi davanti a un uomo nel quale, ogni gesto, ogni parola, erano un atto di poesia. Essere ricevuto nel suo studio e nella sua casa dove, a ogni nostro incontro, riuniva poeti e pittori e, in quelle occasioni sentirsi quasi il soggetto stesso dell’incontro, sentirsi parte di quella società segreta, di quella Praga clandestina e resistente che allora, con certezza, poteva essere definita la capitale morale dell’arte.

Amava gli altri artisti per la sola ragione di essere artisti e aveva profondo rispetto per la loro arte. L’ho incontrato, per la prima volta, nel suo studio di Nekazanka, n.10, nell’agosto del 1969, per poi rivederlo nel corso degli anni, fino a Parigi, nello studio di rue Olivier Metra. Mi aveva accompagnato da lui lo storico di letteratura ceca e traduttore degli scritti del Vasari, Jan Vladislav, costretto in seguito all’esilio in Francia. Nell’occasione di quel nostro primo incontro gli avevo offerto un mio libretto, ancora intonso. Prima di aprirne le pagine volle lavarsi le mani. Non potrò mai dimenticare qual gesto in cui era scritta tutta la sua nobiltà. Piango la perdita di un grande poeta e di un amico.

Claudio Parmiggianida La Stampa, lunedì 26 agosto 2002

KOLÁŘ E L’ARTE DEL SILENZIO

Un uomo intorno alla cinquantina, di media statura, lento nell’incedere, un po’ gonfi gli occhi, lo sguardo stanco ma attento. Una soffitta al 3° piano di una casa cadente, da troppi anni in corso di restauro, senza ascensore, saranno 30 gradi ma si respira male. C’è un acquaio piccolo contiene a stento 3 lattine di birra, su cui scola svogliato un filo d’acqua, tentativo affannoso di ricerca di frescura. Alle pareti poche cose: un calendario “optical”, forbici appese, piccoli ritagli di giornale. Kolář dice che le opere sue che vi erano appese le ha tolte perché l’umidità che colava dai muri le aveva sciupate tutte. C’è un grande tavolo, come quello di un falegname, sopra tante lamette, colla nei bicchieri e nei barattoli e righelli di legno e ritagli. Un amico, dice Kolář, affettuoso, pronto sempre a dargli una mano, stamani ci fa un po’ da interprete. Questo Kolář, come mi si è presentato, ed a pensarci ora, so di lui poco più di quanto l’emozione mi ha fatto cogliere in quel primo momento.

Cercavo un artista che fosse rappresentativo dell’arte d’avanguardia d’oltre cortina, dell’avanguardia vera, quella libera ma invisa ai regimi che temono le cose nuove. Avevo preparato una scaletta con tante domande, ma è rimasta nella borsa, il perché è semplice: Kolář basta vederlo, basta guardare le sue opere, sapere da lui poche altre cose e riflettere che siamo a Praga.

A Praga se ci arrivi di sera hai l’impressione di una città oscurata, solo se c’è la luna compare il profilo di San Vito sul colle, tutto il resto è perduto nella notte profonda. Qua e là da un tombino esce del vapore bianco, un ragazzetto ti chiede se vuoi ”cambiare”, un camion verde con la stella rossa ti accosta poi ti supera con fracasso. Vai a letto con tutto questo negli occhi e però Praga è la dolce Praga e aspetti il giorno quando i vapori dei tombini non sono più così inquietanti, i camion dei russi non passano e la Moldava è di nuovo verde. Ci sono circoli dove per 15 persone suona un’ottima orchestra jazz e un altrettanto ottimo fotografo rappresenta con un intuito e una tecnica geniale quella musica. Senti nell’aria che nessuno riceve un soldo e una volta di più questa gente ti commuove.

C’è una critica di fotografia è la moglie di Libor Fára artista già noto, si sono costruiti con le loro mani una casa nella soffitta dell’atelier, ne vanno orgogliosi, dopo tanti anni la casa non l’aspettano più. È Fára che telefona a Kolář per annunciare una nostra visita. Non mi dice nulla di lui solo che è malato, soffre di cuore. Così sono arrivata a questa casa nel quartiere della polveriera, venendo dalla quale si attraversa un giardino con pochi bimbi (sono tutti in colonia) e tanti vecchi sulle panchine, poi pochi metri di una via in subbuglio: catrame, tavole, operai impegnati in non si sa bene cosa. Poi a piedi per una scala ripida, con i muri scrostati e cadenti, finestre senza vetri e tante porte e porticine. In cima un corridoio stretto, tante porte e tanti nomi.

Se chiedi, per la prima volta qui a Praga, ti senti rispondere con circospezione e intanto resta che non riesci a trovare Kolář. Per tentativi: l’ultima porta, altre scale e finalmente questa soffitta bassa con un caldo insopportabile, la birra nel lavandino e questo uomo stanco. Ti sorride, apre una lattina di birra, si spruzza la camicia rossiccia, ti offre la birra, ne beve un po’ poi trasporta su quel tavolo grande di legno, da falegname, una montagna di opere. Il primo gruppo sono 200 pronte a partire per Parigi dove si farà una sua personale. L’amico traduce, lui continua a parlare e intanto ti mostra altre opere e ti guarda attentamente, quando si accorge che sei entrata nelle sue figurazioni allora te le spiega e tu scopri oltre a un’arte nuova un uomo unico e la sua sofferenza. Senti anche la paura, anche se non dice nulla di preciso.

Kolář era un poeta, il maestro del “Gruppo 42”, il più importante degli anni 50 e ne dirigeva la rivista. Quando morì Stalin pubblicò due fotografie a lutto: quella appunto di Stalin e quella del capo di governo cecoslovacco. Passò così due anni in prigione e poi gli fu proibito di scrivere. E non ha più scritto un verso, si è chiuso in questa soffitta dove scompone i grandi dal rinascimento all’espressionismo e ricompone Kolář. Era un tentativo, una ricerca, è diventata una lingua fatta di figure che s’intersecano, il suo nuovo modo di fare poesia. I suoi quadri si acquistano solo nelle gallerie di stato dove ce ne sono pochissimi e si pagano cari, lui non li può vendere e non li vende e nel dir questo non ti guarda, il suo amico ti spiega che è stanco e intimorito.

Tutto qui non ti dicono altro, però quando ci si saluta lui ti fa un inchino e ti porge una piccola opera perché lui fa sempre un omaggio alle signore che vanno a trovarlo per vedere le sue opere ed il suo atelier, e poi tu sei italiana ed il suo primo mecenate è stato un italiano. Sulla porta ti vien voglia di abbracciarlo come fosse un vecchio amico e non sai più dove finisce l’ammirazione e dove comincia la simpatia, il condividere. Per le scale il suo amico che ci accompagna ci spiega che anche due volte alla settimana vengono a trovarlo degli stranieri, sono venuti fin dall’America dove qualcuno già lo conosce. Poi l’amico aggiunge: se volete fargli cosa gradita mandate qualche rivista di moda a sua moglie. Scendo gli ultimi gradini rovinati: è strano non ho altre domande né altre risposte ma certo i miei pensieri e la realtà non combaciano.

Edda Arrigoni GazzerroPraga, in un giorno di luglio 1971